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di Anna Mavilla


Noi dobbiamo creare un nuovo patrimonio da porre accanto a quello antico, dobbiamo crearci un’arte nuova, un’arte dei nostri tempi, un’arte fascista.
Benito Mussolini

La frase lapidaria, esposta in bell’evidenza all’ingresso della “II Esposizione di architettura razionale” promossa dal MIAR (1), organizzata nel 1931 a Roma da Pier Maria Bardi nella sua Galleria d’arte a Palazzo Coppedè in via Vittorio Veneto 7, sembra suggerire una sorta di identificazione fra la modernità di un nuovo linguaggio architettonico e la modernità dello Stato fascista. Il tema di quale compito dovesse assolvere l’architettura in uno Stato fascista era diventato centrale proprio all’inizio di quell’a anno, e tra febbraio e giugno tutti i quotidiani avevano dedicato ampio spazio alla questione, sollevata appunto da Bardi sulle pagine de «L’Ambrosiano» il 31 gennaio con l’articolo Architettura, arte di Stato, e da lui ripresa in forma più ampia e complessa nel Rapporto sull’architettura indirizzato a Mussolini, uscito in concomitanza con la mostra di architettura razionale per le edizioni di «Critica Fascista» dirette da Giuseppe Bottai. Nel suo articolo Bardi, se da un lato sottolineava che il compito ideale dell’architettura era di sorreggere, accompagnare e illustrare le conquiste del fascismo, impegnato in una «gara di primato nel mondo», dall’altro riteneva impellente una revisione della legislazione sull’architettura e la costituzione di un organismo centrale che fornisse «l’indicazione delle generali idee urbanistiche e delle preferenze morali dell’Italia fascista». 

In buona sostanza, lo Stato avrebbe dovuto vigilare e intervenire per lasciare spazio alla «nuova coscienza artistica italiana», così da liberare il campo dalle infl uenze della tradizione liberale ottocentesca e giungere alla definizione dell’architettura come arte di Stato. L’esortazione di Bardi, pur circoscritta al momento architettonico, può estendersi all’intero campo artistico e culturale, inserendosi perfettamente nella trasformazione che il fascismo aveva operato nella gestione della cultura ufficiale e nell’organizzazione del consenso, dalla fondazione dell’Istituto nazionale fascista di cultura nel 1926, all’istituzione nello stesso anno dell’Accademia d’Italia (che inizierà però a funzionare nel 1929), alla creazione dell’Istituto    dell’Enciclopedia Italiana sempre nel 1926 (cui fa seguito, a partire dal 1929, la pubblicazione dei relativi volumi); dalla costituzione dell’ordine dei giornalisti nel 1925 e del relativo albo nel 1928, alle leggi sull’arte del 1927. Atti e momenti che testimoniano la ricerca di identità culturale del fascismo, sostenuta anche dal filosofo Giovanni Gentile, per il quale tutto ciò che è spirituale deve essere «dentro la grande sfera, anch’essa spirituale, dello Stato» (2).

Inoltre, il 22 novembre 1928, in un articolo pubblicatosu «Il Popolo d’Italia», Mussolini stesso chiariva il ruolo attribuito alla città nella nuova politica industriale e agricola del regime, quel «piano regolatore dell’economia italiana» i cui aspetti essenziali già aveva delineato nel famoso discorso dell’Ascensione tenuto alla Camera il 26 maggio 1927 (3)

Il titolo stesso dell’articolo, Sfollare le città (4), sintetizzava il concetto base che doveva guidare lo sviluppo urbano e ogni possibile soluzione di “piano”. Di fatto, la parola d’ordine si tradurrà in sventramenti e ricostruzioni (peraltro già previsti in quell’ipotesi di «diradamento» che avrebbe dovuto ripulire discretamente il vecchio centro fino a «ridurlo a un modesto quartiere misto di case di affari e di semplici non ricche abitazioni» (5), avanzata da Gustavo Giovannoni già negli scritti del 1913 (6), poi ripresi e rielaborati con grande fortuna nel 1931 (7) a partire da Brescia, il cui nuovo piano regolatore nel 1928 era stato affidato direttamente dal Comune a Marcello Piacentini, primo architetto dello Stato fascista nominato nel settembre 1929 accademico d’Italia, che interpreterà perfettamente l’esigenza di conciliare soluzioni funzionali alla crescita della città (sviluppando il settore terziario e i servizi di Stato a esso connessi) con la richiesta di un’immagine rappresentativa del nuovo potere che si innestasse nel vecchio organismo urbano.

Brescia, con il nuovo “foro” che la centralissima piazza della Vittoria intende ricreare, fiore all’occhiello nel panorama delle opere edilizie del regime (il giorno della solenne inaugurazione, nel novembre del 1932, Mussolini dirà che le parole sono superflue di fronte ai «superbi edifici» del foro bresciano), verrà assunta a modello per le città medie, come anche Parma, che durante il regime diventano i poli di una ristrutturazione territoriale, intesa a presentarsi quasi come immagine lata di quel fascismo che vuole rappresentare il nuovo volto dell’Italia pur rimanendo all’interno delle tradizioni, e anzi fondendosi con esse, rendendone visibili i miti (e per primo quello della romanità, il più produttivo nel promuovere la nazionalizzazione delle masse e nell’offrire un’identità collettiva in cui affondare le radici), al fine di trasformare la mentalità di un popolo, alimentandone l’autocoscienza, per realizzare la costruzione di una «nuova civiltà» e di un «uomo nuovo» fascista.

Brescia costituirà un modello anche per lo “stile” dell’epoca fascista, indifferentemente definito moderno o littorio, inteso come «composizione dell’idea classica costruita su Roma e di un’istanza di moderno considerata propria del fascismo » (8). Portici, archi, colonne (simboli riconosciuti e senza tempo della romanità imperiale, ma anche di quel sentimento «classico e monumentale» a cui Mussolini auspica attinga l’architettura) connoteranno i nuovi edifici pubblici, i padiglioni per esposizioni, gli allestimenti per mostre e le città di nuova fondazione (Littoria, Sabaudia, Pontinia, Aprilia, Guidonia, Carbonia, Pomezia, solo per citare le più note) (9), in un crescendo che sembra andare di pari passo con il processo di totalitarizzazione del Paese, tanto che nel 1941, nel tracciare un bilancio di questa enorme produzione architettonica, Piacentini potrà scrivere che in Italia si è costruito «tanto quanto nessun altro popolo nello stesso periodo ha neanche lontanamente pensato di fare» (10). Da sempre instrumentum regni, l’architettura diventa, nelle mani della dittatura, un mezzo formidabile di propaganda, atto a raggiungere il consenso, a mostrare e consolidare la propria forza.

Nel periodo in cui il fascismo è al potere, anche Parma è coinvolta in questo generale progetto di riassetto architettonico e più genericamente culturale. Difficile tuttavia inserire le specifiche vicende della città in una periodizzazione articolata che corra in puntuale parallelo con lo sfondo dello sviluppo della vita sociale, politica, economica dell’Italia del tempo, per l’inevitabile intrecciarsi di avvenimenti, problemi e scelte conseguenti.

Per questo, più che ripercorrere il minuto itinerario dell’intero arco temporale oggetto della presente indagine, si indicheranno qui alcune date significative che segnano per più versi lo specifico artistico-architettonico della città.

L’opera di risanamento dell’Oltretorrente (1928-1932)

La prima data è il 1928, decennale della vittoria, celebrato a Torino nella simbolica unione di Fascismo e Casa Savoia, ma anche anno nel quale giunge a compimento il processo iniziatosi il 3 gennaio 1925 con il noto discorso di Mussolini in cui egli si assume «la responsabilità politica, morale, storica» del delitto Matteotti e in cui si dà l’avvio a una nuova azione di forza riaprendo nuovi spazi al fascismo.

Il 1928 è infatti l’anno che si presenta come punto di arrivo della stabilizzazione del fascismo, con la definitiva “fascistizzazione” dei prefetti e la completa presa di possesso della gestione amministrativa urbana da parte del podestà, «primo magistrato cittadino» come lo chiama il duce, che dal 1926 ha sostituito consiglio comunale, giunta e sindaco allo scopo di riportare il controllo del potere locale al centro.

È appunto in quell’anno che si definiscono le premesse per un nuovo sviluppo di Parma, uno sviluppo che impone lo sventramento come atto di razionalità sociale ed economica, in cui ragioni igieniche giustificano e quasi reclamano la distruzione di parti cospicue della città per aprire nuove strade e realizzare quelle opere pubbliche che definiscono una rete di servizi a carattere territoriale al fine di creare nuove prospettive, nell’ottica di una graduale valorizzazione economica che si traduce anche in una indispensabile valorizzazione estetica.

Nel 1928, infatti, il podestà Mario Mantovani presenta e illustra a Mussolini il progetto di risanamento dell’Oltretorrente, allestito dall’Ufficio tecnico comunale secondo quattro criteri-guida:
a) costruzione della fognatura; 
b) abbattimento dei quartieri più malsani;
c) creazione di larghe strade munite di tutti i servizi;
d) disponibilità di aree per la costruzione di nuove case.

Il duce (a cui sempre le città italiane, da Bologna a Napoli, da Bolzano a Genova, da Livorno a Trieste, richiedono l’indispensabile placet per gli interventi di maggior rilievo) approva e dispone affinché il finanziamento dell’opera venga erogato «direttamente dal Tesoro in otto anni e senza alcun interesse, mentre il Comune avrebbe estinto il debito in circa trent’anni» (11).

L’Oltretorrente, da tempi immemorabili abitato dai più diseredati (i quali, non potendo fruire di un normale alloggio nella Parma “cittadina”, si erano sistemati alla meglio nelle modestissime abitazioni che andavano accrescendosi l’una appresso all’altra in quella tarda appendice della città posta a Capo di Ponte e identificata come d’la da l’acua), costituiva fino ai primi decenni del Novecento un’area di estrema depressione sociale, una sorta di grande ghetto nato ai margini della città, una specie di malfamata suburra la cui esistenza veniva volutamente omessa anche dalle più attente guide turistiche cittadine «quasi si trattasse di una ferita infetta da celare alla vista di occhi estranei» (12).

Nell’imponente opera di risanamento, che in poco più di cinque anni avrebbe tolto l’Oltretorrente dalla sua secolare condizione di degrado, tutti i diversi problemi che da tempo angustiavano il quartiere venivano affrontati: dalla ridefinizione urbanistica al risanamento edilizio, allo sviluppo stradale. Nel 1932, a lavori ultimati, la zona interessata dal progetto, compresa nel quadrilatero formato da strada Massimo d’Azeglio, viale Vittoria, viale Caprera, viale Maria Luigia, poteva dirsi aver conseguito quel «forte diradamento delle costruzioni con vantaggio igienico conseguente» (13) che Mussolini proprio nel 1928 aveva sollecitato: circa 800 famiglie, rappresentanti 4.500 individui, erano state «smistate» (14) dall’originario nucleo abitato (nell’ottica di un controllo istituzionale delle masse più emarginate e riottose che alla politica del “diradamento” era sotteso) e avevano trovato «confacente alloggio» (15) in apposite case costruite a cura e spesa dell’Amministrazione Comunale.

Sistemare gli sfrattati dalle case destinate alla demolizione (cui si aggiungevano gli sfrattati a seguito dell’avvenuta liberalizzazione delle locazioni) costituiva per il Comune un serio problema, in attesa di poter utilizzare le nuove costruzioni che sarebbero presto sorte nell’area degli ex orti medievali, nella zona sud-ovest del perimetro cittadino.

Per ovviare a questa situazione l’ingegnere capo del Comune, Giovanni Uccelli, studiò la possibilità di fornire in tempi il più possibile ragionevoli un alloggio decoroso a tutti i cittadini bisognosi, progettando nuove, economiche costruzioni ad hoc, distinte in varie categorie: dagli «ultrapopolari», in seguito definiti anche «Asili comunali» e infine, semplicemente ma efficacemente, i «Capannoni», per l’aspetto di lunghi e bassi fabbricati a un solo piano (insediamenti di via Navetta, via Verona e del Cornocchio) o a due piani (insediamento di via Paullo e del Castelletto), destinati secondo le intenzioni del progettista «alla popolazione più povera, a quella che era abituata a vivere per lo più fuori casa» (16); ai più decorosi, realizzati in veri e propri edifici civili e magari connotati da qualche minima concessione al superfluo, come i balconi della facciata e i fregi decorativi sulla fascia esterna del sottotetto del cosiddetto “palazzone” posto in via Varese allo sbocco di via Baganza, o i quattro torrioni del fabbricato sorto negli ex orti di San Domenico in angolo fra via Francesco Rismondo e via Tommaso Gulli.

Esempi di architettura fascista a Parma

Nel 1926, per ovviare al fabbisogno di abitazioni civili a prevalente uso dei ceti popolari (il tema della casa popolare, cui si connette il problema sociale, costruttivo ed economico dell’abitazione, andrà sempre più impegnando anche a livello nazionale le forze politiche, amministrative e tecniche man mano che ci si inoltra nel terzo e quarto decennio) (17) era stato creato l’Istituto Autonomo, la cui attività si concentrava sulla costruzione di alloggi da cedere in proprietà ad ammortamento dei costi reali sostenuti oppure in locazione.

Fra i vari fabbricati civili progettati in diverse tipologie (a blocco, con più piani oltre il terreno (18), o a schiera, con alloggi indipendenti costruiti in serie a due piani e abbinati, sul modello delle case operaie inglesi) (19), particolare interesse riveste la “Casa della Nuzialità”, «diretta e logica conseguenza della campagna per l’incremento demografico bandita dal Duce» (20), connessa all’idea del numero come forza, peraltro sostenuta anche da studiosi autorevoli, come Corrado Gini, incaricato nel 1926 da Mussolini stesso di dirigere il neonato Istituto Nazionale di Statistica, o Gino Arias, teorico corporativista e storico economico, poi espulso dall’Italia in quanto ebreo.

Nel quadro della lotta alla denatalità, che scoraggia o criminalizza il celibato puntando sulla famiglia e sull’esaltazione delle donne prolifiche d’Italia, la “Casa della Nuzialità” di Parma (una città che non può vantare un alto coefficiente di nuzialità) (21) è “provvidamente” edificata fra il 1933 e il 1934, un biennio chiave per l’edilizia cittadina, «per volere di S.E. il Prefetto, del Segretario Federale e del Podestà […] nell’elegante e salubre quartiere dell’ex Campo di Marte» in via Giuseppe Rondizzoni.

Destinato nelle intenzioni dei progettisti a coniugare «felicemente il razionalismo dell’architettura e l’economia della spesa» (22), l’edificio costituisce un esempio significativo di quel linguaggio corrente, il cosiddetto “stile littorio” (peraltro non sempre apprezzato dal grande pubblico (23), che caratterizza edifici pubblici e privati realizzati in questo giro di anni e connotati da una serie di comuni elementi architettonici capaci di trasformare superfici e volumi, di semplificare senza ridurre: finestre unificate in pochi tipi e ritmicamente allineate, talvolta riquadrate da una serie verticale di alte paraste; cornici di coronamento; impiego di travertino e di uno speciale mattone in litoceramica (24); intonaci giallo-rossicci e diaframmi murari realizzati con il solo uso del mattone, che riconducono lo spazio urbano al rigore e alla severità della tradizione romanica.

Tutti elementi che, insieme all’impianto planimetrico disposto preferenzialmente lungo assi di specchiata simmetria al cui centro si apre la parte più rappresentativa, spesso enfatizzata da ingressi monumentali, danno unità all’insieme attenuando le diversità formali e riducendo l’articolazione dell’edificio a un semplice gioco di volumi, in un linguaggio che si vuole definire “italiano” e “razionale”, e che può ad un tempo soddisfare le istanze di monumentalità e di modernità.

Modernità di cui costituiscono un esempio funzionale e rigoroso la “Casa del Balilla” e la Centrale del Latte, entrambe portate a termine nel 1934. La “Casa del Balilla”, edificata (25) nell’area dell’ex Piazza d’Armi su un’estensione di circa 5.000 mq delimitata a est da piazzale Alessandro Volta, a nord da via Pozzuolo del Friuli, a sud da via Giuseppe Rondizzoni e a ovest da viale Giovanni Rustici, riprende nella struttura a due blocchi raccordati da una “torre littoria” centrale e scanditi con ritmica cadenza da ampi finestroni, la consueta tipologia di questi particolari edifici, concepiti e realizzati, oltre che per ospitare istituzioni dove formare fisicamente e ideologicamente l’italica gioventù nel culto del littorio anche per essere una sorta di solenne celebrazione dell’imperitura giovinezza e della forza nazionale simboleggiate appunto dall’ideale di una gioventù sana e dinamica, un segno tangibile e significativo del fascismo che quella giovinezza aveva «inquadrata, organizzata, animata, per avviarla ai più alti, immancabili destini» (26) (come proprio in quell’anno aveva modo di dichiarare a proposito degli edifici, stadi e campi realizzati a Roma nel Foro Mussolini, Mario Paniconi, uno degli architetti che avevano collaborato alla costruzione di questa prima e organica concretizzazione della Roma mussolinea).

Ancora più nitido e deciso il modernismo razionale della Centrale del Latte, edificata su progetto dell’ingegnere Carlo Brizzolara (Noceto, 1878-1953): connotata da un’attenta disposizione volumetrica e da una calibrata organizzazione delle forme «in cui i nuovi criteri estetici si armonizzano felicemente colle necessità industriali» (27), sintetizza nell’asciutto rigore della sua architettura il tentativo di conciliare un linguaggio formale moderno con la funzionalità tecnica indispensabile in un edificio industriale, in «un’unità sintetica che ne forma il pregio e la caratteristica insieme» (28), come ben evidenzia il severo disegno dell’ampia fronte convessa, illuminata dalla rigorosa partitura di grandi superfici vetrate (il vetro entra con successo nell’architettura degli edifici come simbolo della «trasparenza» dell’idea fascista, a partire, ancora una volta, dalle parole del duce stesso, che aveva definito il fascismo una «casa di vetro»).

Perimetrato da pareti curve e ridotto a un semplice gioco di volumi, il blocco centrale racchiude nella sua essenziale elementarità il “cuore pulsante” della Centrale, il salone delle macchine, disposte su un unico piano così che da ogni punto sia possibile vigilare il complesso succedersi di tutte le operazioni, dal ricevimento alla conservazione.


Principali interventi sulla viabilità cittadina

Parallelamente la politica urbanistica si indirizza verso l’ottimizzazione della viabilità, criterio portante, insieme a quello del “diradamento”, del nuovo piano regolatore che la Commissione straordinaria di Urbanistica (istituita dal podestà Mantovani con deliberazione del 23 gennaio 1933) appronta entro l’estate del 1934 (29), preoccupandosi oltre che degli allargamenti di vecchie strade, dellecongiunzioni e della lottizzazione, di spingere le più importanti radiali cittadine verso la campagna, potenziando «gli stradoni e in generale le circonvallazioni » (30), in perfetta coincidenza con l’immagine di «piano» che Mussolini andava evocando proprio in quell’anno: «È questa l’epoca dei “piani” […]. Questi piani rispondono a un bisogno degli spiriti percossi dalla crisi e dal precipitare dei vecchi idoli. Il “piano” è un tentativo di domare le forze e di ipotecare il futuro. Il “piano” è il tentativo di eliminare l’arbitrario e l’imprevedibile dallo sviluppo delle situazioni» (31).

Già nel 1933 si erano avute alcune importanti migliorie nella viabilità cittadina: l’edificazione del ponte Dux sul tratto della via Emilia fra strada Mazzini e piazza Corridoni, in sostituzione del vecchio ponte di Mezzo con la sua gobba poderosa e la cappelletta semicilindrica dedicata a San Giovanni Nepomuceno (ormai del tutto inadeguato, coi suoi soli otto metri di larghezza, alle esigenze dell’intenso traffico moderno), e la sistemazione definitiva della grande arteria del Lungoparma, iniziata nel primo Novecento da Giovanni Mariotti, (32)   che andava ad alleggerire strada Garibaldi, via Cavour, piazza Garibaldi e strada Farini.

Il 28 ottobre 1933, in coincidenza con l’inizio dell’anno fascista (33) (sempre le inaugurazioni vengono fatte coincidere con le date che scandiscono le feste del calendario fascista e le ricorrenze, fascistizzate, della storia patria), aveva avuto luogo il solenne battesimo del ponte Dux, edificato in soli 18 mesi, su progetto dell’ingegnere Aurelio Aureli (34) e dell’architetto Vincenzo Fasolo di Roma (35). Realizzato a cinque arcate in cemento armato e rivestito in mattoni e granito di Sardegna, con pavimentazione in cubetti di porfido e lastre di Luserna, il ponte intendeva simboleggiare nel nome assunto e nel suo stesso linguaggio architettonico «robusto e decoroso, […] romanamente moderno» (36) l’ideologia fascista e il suo peso nella «ricostruzione morale e materiale d’Italia» (37), costituendo quasi un’autorappresentazione della politica architettonica del regime, «la quale con la simultaneità dell’antico e del moderno, si impone all’ammirazione del mondo», come di lì a poco avrebbe dichiarato Mussolini stesso (38), che ama diffondere l’icona del duce architetto, accanto a quelle più consuete del duce aviatore, mietitore, minatore ecc., nell’intento di alimentare il mito dell’uomo superiore e versatile, dalle imbattibili risorse intellettuali. Questa è, non a caso, una stagione d’oro per i concorsi di architettura: promossi in alto numero e con un’ampia diffusione in tutto il territorio nazionale, consentendo agli architetti di ampliare le possibilità di partecipazione e di affermazione (nonché di “omogeneizzazione” attorno ad alcuni temi nazionali), sono collegati al dibattito sull’architettura come arte di Stato.

Il fine comune è quello di infl uenzare le scelte future allo scopo di realizzare quella «fisionomia unitaria, organicamente coerente e stilisticamente definita» (39) che Piacentini, nel tracciare un bilancio dell’architettura italiana fra il 1933 e il 1936, individuerà in una larghissima parte delle opere realizzate in quegli anni, a riprova dell’affermazione di un linguaggio comune, nazionale, fascista.

Esposizioni e concorsi artistico-architettonici a Parma tra il 1933 e il 1943

Il 1933 è per Parma anche l’anno della prima mostra sindacale d’arte, inaugurata il 13 novembre nei consueti spazi del ridotto del Teatro Regio, cui partecipano con entusiasmo «alcuni giovani di animoso temperamento» (40), nel cui ambito non manca «la nota gentile della femminilità cultrice dell’arte con le signorine Alice Della Torre Ferrari, Alma Manghi ed Elfride Gragnani» (41), pattuglia esigua ma pur sempre significativa in un periodo in cui le artiste molto spesso inciampavano nel pregiudizio sociale che le spingeva a rinunce “dovute”, nonostante il loro riconosciuto valore.

Accanto ai più giovani, fra cui si segnalano Carlo Corvi (già aureolato dal successo della mostra regionale del sindacato di Forlì, dove ha riportato il primo premio di scultura col suo apprezzatissimo Aminta) e Gino Robuschi (con una serie di Progetti per la sistemazione di Via Mazzini), grande è il concorso di «artisti nostri che da tempo godono larga e meritata rinomanza» (42), quali Baratta, Bocchi, Bonaretti, Brozzi, Fainardi, Froni, Pozzi, Raimondi e Latino Barilli. Quest’ultimo, in particolare, con un’opera dal titolo Il perno, presenta una cifrata allegoria politica celata dall’artificio del mito d’Europa (43), dove il richiamo classicista, attraverso la rappresentazione di una realtà mitica e leggendaria, funge da filtro per un ideale collegamento tra passato e presente.

Un quadro spiegabile solo nel clima di inevitabile cedimento all’ufficialità e alla propaganda di regime, che connota un’ampia varietà di campi di espressione in questi anni e al quale non resta immune quasi nessun artista; emblematico in tal senso il caso di Goliardo Padova, che nel 1934 dipinge Il grande inizio, una composizione enigmatica dal titolo volutamente ambiguo che forse adombra un intento antifascista, ma che all’epoca verrà interpretata nel segno opposto, tanto da essere esposta ai Prelittoriali di Milano e ai Littoriali della Cultura a Roma (44). Restano immuni da questo cedimento solo quegli artisti che, come Bocchi o Pozzi (45), preferiscono circoscriversi in una dimensione del tutto personale, ostinatamente unitaria e crepuscolare, che, se non è competitiva con le grandi ricerche del Novecento, non avverte nemmeno il rappel à l’ordre della retorica imperante.

Il quadro di Barilli è invece in linea con le figurazioni idealizzate dell’italiano “nuovo” e con i miti della romanità fascista che il regime andava propagandando attraverso gli eventi espositivi. Alle mostre, infatti, il fascismo affida la funzione di mobilitazione propagandistica delle masse in speciali eventi e occasioni (funzione peraltro confermata dal fatto che gran parte di esse è organizzata dal PNF),  anche attraverso temi che talvolta sono apparentemente estranei alla politica stessa, ma sentiti comunque come funzionali a riassumere le varie anime del fascismo: da un lato il richiamo alla tradizione classica, dall’altro l’immagine della modernità e dell’originalità che accompagnano e illustrano il nuovo regime.

A Parma è questo il caso delle solenni manifestazioni artistiche per il quarto centenario della morte del Correggio (1534-1934), di cui si comincia a parlare con grande enfasi già nel 1933 (46), con la costituzione di un Comitato ad hoc sotto la presidenza del segretario federale, Comingio Valdrè (47), impegnato anche a organizzare numerose iniziative collaterali che diano all’evento un’adeguata risonanza a livello propagandistico. «Ostacoli quasi insormontabili» (48) (come la decisione di altre nazioni, fra cui Austria e Francia, da cui si attendevano alcuni fra i maggiori capolavori, di dar vita a mostre correggesche in loco) (49) maturano nel Comitato l’idea di rimandare l’evento al 1935; nel frattempo, a incoraggiare gli animi, giungono incitamenti (50) e aiuti concreti (51), mentre a occuparsi delle richieste di prestito presso musei stranieri è lo stesso Ministero degli Esteri. Anticipata dall’esposizione delle opere presentate alla XV edizione del Premio Artistico Perpetuo (52), inaugurata il 1° maggio 1934 nei consueti spazi del ridotto del Regio e preceduta da una serie di commemorazioni (musicale (53), religiosa (54), storicoartistica) (55) e iniziative culturali (dal Convegno delle Deputazioni di Storia Patria dell’Emilia tenutosi a Correggio il 22 aprile 1934 sotto la presidenza del senatore Giovanni Mariotti, al concorso bandito dal Comitato per la realizzazione del manifesto pubblicitario) (56), la mostra si apre il 21 aprile (natale di Roma e celebrazione delle forze del lavoro e della produzione) nell’austero Palazzo della Pilotta sotto l’alto patronato del re e gli auspici dell’Accademia d’Italia.

Ufficialmente inaugurata il 28 dello stesso mese dalla duchessa di Pistoia (57) in rappresentanza della regina, si chiude il 28 ottobre, ancora una volta in puntuale coincidenza con uno dei più importanti rituali commemorativi del regime:

Le due date [scrive Matteo Cerini nell’annunciare l’imminente inaugurazione dell’evento (58)] entro cui si svolgerà la mostra correggesca organizzata dal partito fascista, ne dichiarano apertamente il profondo significato nazionale, lo squisito valore ideale. Onorando il Correggio, si vuole non soltanto esaltare una gloria cittadina, ma anche uno dei grandi artisti che la nostra Patria ha espresso dal suo grembo e ha imposto all’ammirazione del mondo. Celebrando il Correggio a Parma o il Tiziano a Venezia, si celebra l’inesauribile giovinezza della stirpe italiana.

L’esposizione, organizzata nelle sezioni Dipinti e disegni (59) e Grafica (60), potrà vantare un grande successo di pubblico, che dà prova dell’efficacia della mobilitazione propagandistica messa in opera dalla locale federazione parmense dei fasci di combattimento, soprattutto per essere riuscita a convogliare a Parma (anche grazie a facilitazioni per il viaggio (61) e alla coincidenza con tante iniziative collaterali, che caricano la mostra di molteplici valenze) quasi 40.000 visitatori, fra cui si contano reali (Vittorio Emanuele III, il principe e la principessa di Piemonte, l’ex re di SpagnaAlfonso XIII), ministri (De Vecchi, Rossoni, Razza)e membri eccellenti delle alte gerarchi e del governo e del partito (da Federzoni a Tassinari, da Serena a Teruzzi).

L’esposizione, scrive sulle pagine di «Aurea Parma» Giovanni Copertini (62) (che dell’evento fu il più autorevole cantore fra i tanti propagandisti che contribuirono con la parola scritta a esaltarne il significato), «ha conseguito un successo notevole, il quale posa sulle seguenti basi: il fascino del Correggio che aumenta di anno in anno invece di decrescere (63); la superba bellezza di alcune sue opere […]; la regale maestà della sede che ha ospitato la Mostra; la solerzia e l’infaticabilità dell’Ufficio di segreteria e di amministrazione, l’animosa costanza del Presidente del Comitato esecutivo, Avv. Comingio Valdrè».

Non secondario al buon esito dell’evento fu l’importante Congresso Nazionale degli storici e critici dell’arte, apertosi l’11 maggio 1935 nell’aula magna della R. Università e conclusosi con una solenne cerimonia al Teatro Farnese officiata da una celebrità come Adolfo Venturi, il più famoso fra gli studiosi dell’Allegri, e aureolata dalla presenza del ministro dell’Educazione, il quadrumviro De Vecchi.

Il 5 marzo 1936 il Comitato organizzatore chiudeva ufficialmente i suoi lavori con una relazione tecnica del presidente, il segretario federale Valdrè (ormai in procinto di partire volontario per l’Africa Orientale) (64), che proclamava il pieno successo, anche economico, della manifestazione, conclusasi con un attivo di lire 150.906,95, che i membri del Comitato proponevano di destinare «a finanziare tutte quelle manifestazioni di carattere artistico e culturale che la Federazione stessa riterrà di organizzare nell’interesse cittadino» (65), sintomo tra i più evidenti di un clima mutato, in cui alla consueta celebrazione dei temi tipici di un’esposizione si andava sovrapponendo una sempre più decisa autocelebrazione del fascismo, specchio di un’esasperazione della tendenza totalitaria in corso.

Il clima, del resto, stava mutando anche a livello politico: la guerra di aggressione all’Etiopia, perfettamente organica al regime, è ormai prossima. L’entrata in vigore delle sanzioni, il 18 novembre, in seguito all’invasione della nazione africana iniziata all’alba del 3 ottobre, favorisce la propaganda totalitaria del partito nel mobilitare gli italiani contro quello che è visto come un ingiusto assedio economico decretato da cinquantadue stati pilotati «da un Impero geloso» (66) che già avverte gli scricchiolii del suo vasto dominio coloniale, tanto che appena un mese dopo, il 18 dicembre, uomini e donne vengono chiamati a unirsi misticamente con il regime e con la patria in guerra, donando la fede nuziale.

L’ondata di patriottismo è tale, dopo la grandiosa cerimonia delle nozze fra la nazione e il regime svoltasi sull’Altare della Patria con uno straordinario rituale di massa, di grande suggestione e acume propagandistico, che persino alcuni antifascisti in Italia e all’estero offrono il loro simbolico sostegno alla patria in guerra; anche Benedetto Croce dona la sua medaglia di senatore (67).

La guerra si concludeva sei mesi dopo, il 5 maggio 1936, con l’entrata del maresciallo Badoglio in Addis Abeba. La sera del 9 maggio Mussolini annunciava dal balcone di Palazzo Venezia «la riapparizione dell’Impero sui colli fatali di Roma» (68): il mito della romanità fascista, dominato dalla fede nella vitalità della stirpe e nella vocazione imperiale della nazione italiana, diventava una realtà. Con l’impresa etiopica il fascismo raggiunge il massimo del consenso interno e Mussolini tocca l’apice del suo prestigio personale.

Anche sul piano dei linguaggi artistici questo è il momento in cui pittura, scultura, architettura e grafica tendono a confluire in un discorso parallelo che ha come supporto una “mitografia italica” finalizzata a contenuti ideologici legati sia alla glorificazione della nuova romanità imperiale (una romanità che ha in filigrana l’onnipresente immagine del duce, il cui ritratto con l’elmo guerriero e il volto irrigidito in una marmorea severità, sorta di statuario mito vivente, dilaga ormai senza freni nel clima di generale incensamento…), sia alla richiesta di consenso mediante tematiche propagandate dal regime: il mondo del lavoro, soprattutto rurale, e i valori a esso collegati, la maternità, ma anche il soldato (l’accostamento delle figure del soldato e del contadino, uniti da un comune destino, è elemento ricorrente nelle tante “battaglie” divulgate dalla propaganda), perlopiù rappresentati in una dimensione di monumentalità, immersi in una tacita e nobile solennità che si traduce in quell’atmosfera di serena atemporalità e di religiosa moralità care al regime.

A Parma si allineano a tale contesto soprattutto le opere di alcuni scultori e di artisti che operano nell’ampio campo dell’illustrazione. Nel 1933 Renato Brozzi (Traversetolo, 1885-1963), scultore di educazione decorativa e abilissimo orafo, realizza la Vittoria del frumento, una statuetta di un chilogrammo d’oro su base d’agata rossa e nera, forgiata per la Federazione Consorzi Agrari e destinata quale premio al vincitore della “Battaglia del grano”, in cui il respiro classico, volutamente ricercato nell’esplicita volontà di uscire dalle strettoie del realismo descrittivo, va nella direzione di una certa solennità arcaicizzante che non manca di pagare un tributo alla stringatezza formale.

Stringatezza formale assai più esplicita nell’oratoria asciutta che connota il Monumento a Fabio Bocchialini, «duro e severo fra nuvole e vento» (69), inaugurato sulla vetta del Monte Caio nel settembre di quello stesso anno, o le grandi Aquile da collocarsi sui piloni del Ponte Risorgimento a Pescara, o ancora il trofeo Spiga d’oro, commissionato nel 1940 all’artista dal Comitato Nazionale per l’Incremento delle Concimazioni (70), fortemente stilizzato e geometrizzato ancora in senso déco, che richiama nell’accentuato processo di astrazione i migliori lavori esposti nell’ottobre del 1927 alla Prima Mostra Nazionale del grano inaugurata al Palazzo delle Esposizioni in Roma (dove Brozzi ha casa e studio dal 1915).

Un maggiore cedimento formale all’ufficialità rivela invece l’enorme campana di trenta quintali da offrire alla torre civica del municipio di Addis Abeba, fusa con il bronzo dei mortai offerti nel 1938 dai farmacisti italiani, dove il trionfo degli orpelli e del ciarpame propagandistico del fascismo si fa ossessivo (la Vittoria alata in marcia, il leone, il fascio littorio, il bastone del comando, il tutto legato dall’iscrizione latina inneggiante alla fede fascista usata come elemento decorativo che percorre l’intera circonferenza).

Va detto però che, pur lavorando con una certa assiduità per committenze legate al regime, Brozzi non arriverà mai a essere artista di propaganda, sia perché la sua sensibilità è accesa da valori diversi e più duraturi rispetto alla contingenza storica, sia perché, pur utilizzando temi e motivi graditi al regime, resta comunque estraneo a strategie demagogiche (emblematica in tal senso la  vicenda legata alla commissione della culla offerta nel 1928 dalla Federazione degli artigiani italiani al neonato Romano Mussolini, «una culla che doveva dire molte cose», in omaggio a un adeguamento alle tematiche propagandistiche percepito come fastidioso dall’artista stesso) (71).

Anche Cornelio Ghiretti (La Villa di Basilicagoiano, 1891 – Milano, 1934), scultore dal fare sciolto e sensitivo ma soprattutto squisito cesellatore in oggetti d’uso di straordinario effetto decorativo (tondi, piatti e fascinosi centritavola e trofei, come la coppa creata per il Principe di Piemonte quale premio della prima gara internazionale motonautica disputata nel 1929 a Venezia, che giunge tardivamente a consolidarne la fama), non resta indifferente a tutti quei motivi iconografici tradizionali – la famiglia, la fede religiosa, l’amor patrio, il lavoro della terra (presentato nella sua versione primitiva, rudimentale, preindustriale, con una connotazione sempre positiva ed edificante, ad onta della durezza e della fatica (72) e la spiga (simbolo “battaglia” che si combatte sui campi (73) – riconducibili al sistema di valori su cui si regge la propaganda di regime, motivi che rinnovano la lezione classicista reinterpretandola alla luce di un’arcadica modernità, e in linea con la celebrazione di un mondo rurale in cui domina un’atmosfera sacrale, epica, atemporale ed edificante, cara alla mistica fascista.

Anche per Ghiretti può valere il discorso già fatto per Brozzi: la campagna, i suoi frutti, i suoi animali e la sua gente, interpretati grazie alla sua capacità creativa con un segno originale e personalissimo nel solco di un umanitarismo idilliaco rappresentato in pittura da artisti come Ubaldo Oppi, Alberto Salietti o Gisberto Ceracchini, possono coincidere con la mistica rurale in voga nel Ventennio, ma sono espressione di valori – certamente un po’ datati – ma considerati dall’artista eterni nell’essere umano, e mai ordinati dall’alto o asserviti alla propaganda.

Diversa la posizione di Luigi Froni (Alseno, 1901 – Parma, 1965), grande voce originale tra gli artisti parmensi, passato attraverso il rigore della visione wildtiana e certe durezze del novecentismo senza impigliarvisi, ma traendone gli umori giusti per un discorso personale.

Pur non direttamente coinvolto in opere che indulgono alla celebrazione del regime (se si eccettua la Maschera di Mussolini, realizzata nel 1923 per la XXII edizione del Premio artistico perpetuo e subito notata per la somiglianza e «per il vigore dei suoi piani larghi», come scrive Renzo Pezzani) (74) l’artista è comunque in perfetta sintonia col proprio tempo, con il richiamo alla grande scultura umanistica e del primissimo Rinascimento, come si coglie nella splendida serie di superbi e fragranti ritratti muliebri di gusto arcaicizzante, espressione di serena giovinezza e di gioiosa sanità fisica, sempre di altissima qualità espressiva, che ne punteggiano l’attività negli anni Trenta.

Un tempo al quale peraltro dimostra di essere legato ancora nel dopoguerra, con le forme di declamata monumentalità della statua della Stirpe Italica realizzata nel 1960-61 per il Monumento ai Caduti sulla Torre di San Paolo, che riprende il tema (a dire il vero così “politicamente scorretto” in questo momento storico) della celebrazione del presente, affermata ancora una volta attraverso la propria continuità col passato.

Un plasticismo più solido e solenne (che tradisce l’iniziale formazione di ebanista), in linea con una cultura avviata a destini monumentali, connota invece l’opera scultorea di Pietro Carnerini (Traversetolo, 1887 – Gorgonzola, 1952) che, fra il 1928 e il 1936, è presente in Africa come apprezzato artista “coloniale” (in Somalia, nel duomo di Mogadiscio e in un cippo a Genale, dedicato alla memoria di Romolo Onor e di Giuseppe Scassellati-Sforzolini, pionieri dell’opera agricola nella colonia; in Cirenaica, nella cattedrale di Bengasi e in un busto-ritratto di Rodolfo Graziani, e in località non meglio precisate oltre il Giuba) (75).

Scultore originale e personalissimo quando tratta soggetti a lui cari che ne sollecitano la portentosa fantasia creativa (come nelle imponenti formelle della Via Crucis per Bengasi, nitido esercizio di novecentismo in accezione esotica in cui monumentalità plastica e solennità arcaicizzante si fondono in un affascinante connubio), quanto rigido e greve appena si accosta a celebrazioni che non lo coinvolgono (come nella monumentale targa animata da un popolo di giganti ieratici, realizzata per l’Asilo monumento di San Lazzaro nel 1941), Carnerini partecipa all’ampio dibattito sull’arte religiosa, imperniato sulla possibilità di sviluppare un’arte sacra moderna e di formare un artista adeguato alla cultura religiosa del suo tempo (76), offrendo un saggio nobilissimo della sua padronanza di mestiere in questo specifico campo nel 1939, con la cattedra episcopale del Duomo di Parma, e nel 1940 con l’analogo complesso dell’Abbazia di San Giovanni Evangelista, opere nelle quali si conferma affezionato alla prediletta iconografica del Buon Pastore (che riprenderà nel 1940-41 in una  lunetta della chiesa parrocchiale di Traversetolo) e animalista sensibile ed intenso.

A Parma il discorso sull’importanza di identificare un’arte adeguata alla devozione del tempo, e di promuovere opportune committenze verso artisti e architetti, trova concreta rispondenza nel 1937 con i concorsi per l’edificazione dei “templi” del Sacro Cuore e del Corpus Domini.

Nel primo, bandito a livello nazionale, la giuria non assegna il primo premio di 10.000 lire a nessuno dei 27 progetti presentati, motivando la sua decisione con una puntuale relazione pubblicata sul quotidiano cittadino (77) che in dividua le ragioni dell’esito negativo (78) nel non essere state osservate dai concorrenti le leggi della «liturgia architettonica», con ampio strascico di polemiche (79).

Nel secondo, circoscritto ad architetti e ingegneri parmigiani per nascita o per dimora, e facilitato da «un bando più chiaro e dettagliato di quello nazionale» (80), il premio di 6.000 lire è assegnato al progetto presentato dall’ingegner Sisto Dalla Rosa Prati (Torino, 1901 – Sala Baganza, 1977) (81), che propone una soluzione “moderna” stemperata da forme ed elementi tradizionali dell’architettura storica (con proporzioni ben definite, facciata a capanna, utilizzo di corposi diaframmi murari realizzati in mattone e interrotti solo per lasciare spazio alle grandi vetrate), la cui rigorosa severità ha le sue radici nella tradizione romanica, ma anche in un’istanza del classico come eterno moderno, in linea con il nuovo stile dell’architettura italiana. In questo stesso giro di anni assai significativo risulta l’impegno degli artisti parmensi nell’ambito della grafica (campo assai ricco di sperimentazioni e di incursioni nei più avanzati territori dell’avanguardia) come illustratori e pubblicitari, essenzialmente per l’effettivo peso nella fruizione di massa e per il conseguente allargarsi di una committenza politica mossa da ragioni ideologico-propagandistiche accanto a una committenza industriale e commerciale finalizzata a pubblicizzare merci e aspetti dell’attività economica.

Settore in notevole espansione per le sue potenzialità nel veicolare le pulsioni emotive delle masse, la grafica pubblicitaria registra la non episodica attività di artisti di norma non operosi in questo campo (e per i quali la ricostruzione critica ha sovente trascurato o penalizzato l’ambito illustrativo, sia nella comunicazione pubblicitaria che nel disegno umoristico-caricaturale), come accade, tanto per citare alcuni esempi fra i più clamorosi, per i progetti editoriali di «Aemilia» (82), di «Bazar» (83) o delle numerose riviste umoristiche che costellano il panorama dell’editoria cittadina (84), oppure nella ricca produzione di manifesti e cartoline legata alle occasioni di autocelebrazione nazionale (rappresentate sia dai cerimoniali del regime sia da esposizioni e fiere), dove incontriamo accanto a nomi di operatori che hanno (o avranno) un ruolo di primo piano nel panorama della grafica pubblicitaria ed editoriale italiana, come Cesare Gobbo (Parma, 1899 – Napoli, 1981) e i già ricordati Erberto Carboni (Parma, 1899 – Milano, 1984) e Piero Furlotti (Noceto, 1906-1971), artisti avviati verso rapide e intense fortune in altri contesti, come Guido Marussig (Trieste, 1885 – Gorizia, 1972) (85), Giovanni Bandieri (Carpi, 1908 – Parma, 1995) e Carlo Mattioli (Modena, 1911 – Parma, 1994), autore di una serie di cartoline per il Guf, i Fasci di combattimento e gli Squadristi (86).

Intanto però la conquista dell’Etiopia e la proclamazione dell’impero, che consacrava la continuità spirituale fra la Roma antica e la Roma fascista, fra i grandi imperatori e il duce imperiale, solennemente suggellata con la trionfale mostra aperta nella capitale il 23 settembre 1937 per celebrare il bimillenario della nascita di Augusto (ma in realtà dominata fin dai discorsi inaugurali dall’onnipresenza del duce imperiale, salutato come novello Augusto della risorta Italia imperiale), avevano impresso all’esperimento totalitario una nefasta accelerazione, le cui tappe sono segnate, in politica interna e in politica estera, dalla partecipazione militare alla guerra civile in Spagna, dall’accrescimento della concentrazione del potere nel duce e nel partito fascista a scapito della monarchia, dalla campagna antiborghese per la riforma del costume, dall’introduzione delle leggi razziali e antisemite, dal progressivo avvicinamento alla Germania nazista (inevitabile ma non privo di oscillazioni, che diventa definitivo con la firma del Patto d’acciaio il 22 maggio 1939) e infine dall’intervento dell’Italia nel secondo confl itto mondiale.

In un clima che anche sul piano artistico e culturale va facendosi sempre più fosco, con tentativi, come quello di Roberto Farinacci, indiscusso ras di Cremona e della sua provincia, «di orientare l’arte pittorica italiana verso una concezione politico-fascista» (87) con l’istituzione del Premio Cremona (che impone agli artisti un tema obbligato scelto fra i più ricorrenti della propaganda svolta dal regime in quasi quindici anni) (88), Parma sembra prendere le distanze da un pedissequo adeguamento alle tematiche più esplicitamente propagandistiche, eleggendo il paesaggio e la natura morta a propri temi prediletti e quasi esclusivi, come rivelano le liste delle opere partecipanti ai consueti appuntamenti espositivi (89), secondo un orientamento stilistico di ispirazione ormai apertamente antinovecentista, che sempre più recupera un impressionismo venato di emozione, un sentimento panico della natura percorso da una segreta ansia esistenziale, di una levità talvolta in sintonia con le coeve esperienze del chiarismo milanese (90).

Ne sono protagonisti alcuni artisti parmigiani d’origine o d’adozione (ma di fatto in questi anni milanesi) come Goliardo Padova (Casalmaggiore, 1909 – Tizzano, 1979), che insegna all’Accademia di Brera dal 1934, e Renato Vernizzi (Parma, 1904 – Milano, 1972), approdato nel 1930 nel capoluogo lombardo, dove conosce Umberto Lilloni e Angelo Del Bon (quest’ultimo lo farà posare per Lo schermidore, 1934) che lo avvicinano alla “maniera chiara”.

L’entrata in guerra nel giugno del 1940 provoca un rallentamento quasi totale nel settore pubblico sia nella realizzazione di opere di architettura che nella programmazione di eventi culturali. A Parma in quell’anno si registrano ancora solenni manifestazioni connesse con le commemorazioni centenarie di Giambattista Bodoni (articolate in un ampio ventaglio di iniziative: il Premio Nazionale, la Mostra Bodoniana, il Concorso Nazionale di composizionegrafica e il Convegno Nazionale dell’industria e dell’arte della Stampa) e di Niccolò Paganini (commemorato da un’orazione dell’accademico d’Italia Ildebrando Pizzetti e da tre grandi concerti orchestrali).

Fortemente volute da Francesco Borri, vice podestà e presidente dell’Ente Provinciale del Turismo, e tenute a battesimo con la consueta solennità dal ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Bottai, le celebrazioni del bicentenario bodoniano sono introdotte dalla «rievocazione analitica e dottissima» (91) di Raffaello Bertieri, tipografo, insigne continuatore della classica bellezza del libro, incaricato della commemorazione ufficiale.

Sono però gli ultimi fuochi: tra il 19 marzo e il 21 aprile 1942 si tiene nelle sale maggiori del Ridotto  el Regio una Mostra d’Arte “Pro Combattenti”, a cui partecipa una pattuglia ancora nutrita di artisti locali: Carlo Corvi (che vi espone una «potente» Testa del Duce in terracotta prontamente acquistata dal Ministero dell’Educazione Nazionale), Carlo Mattioli, Umberto Lilloni, Geremia Re, i gemelli Giovanni e Giorgio Bandieri, Arnaldo Spagnoli, Giacomo Chiari, Pietro Carnerini, Emilio Casadio e gli inossidabili Riccardo Fainardi e Latino Barilli.

Ancora nel 1943, dal 2 maggio al 29 giugno, Francesco Borri e Antonio Belli organizzano a Palazzo Marchi, nella sede dell’unione Provinciale dei Professionisti e degli Artisti, una serie di mostre personali di Carlo Corvi, Luigi Bartolini, Renato Vernizzi, Umberto Lilloni, Geremia Re, Emilio Casadio e dei paesisti Chiozza Lorenzi, Giovanni Fabbi e Giacomo Chiari, che pare ottengano «malgrado la guerra, ancora un notevole successo» (92).

Ma gli eventi vanno ormai precipitando con fatale rapidità: caduto il regime il 25 luglio 1943, fuggiti il re e il governo del maresciallo Badoglio dopo l’8 settembre, la penisola diventa un campo di battaglia fra tedeschi e alleati. Anche Parma, venutasi a trovare di colpo, nella deriva politica e militare della Repubblica Sociale Italiana, alla mercé dell’occupazione nazista, proverà drammaticamente il morso delle brutali incursioni aeree anglo-americane che si protrarranno fino al 25 aprile 1945, pagando un tributo pesantissimo: circa 400 i morti, 530 i feriti, i mutilati e gli invalidi, 143 gli edifici distrutti, 2.302 quelli danneggiati, (93) fra i quali il glorioso Palazzo della Pilotta, sede della Galleria dell’Accademia, del Museo Archeologico, del Teatro Farnese, della Biblioteca Palatina, dell’Archivio di Stato, vera “Arcasanta” dell’arte e del sapere della città, che durante il quarto attacco, il 2 maggio 1944, vede distrutte le ali meridionale e occidentale, ricostruite dopo la fine del confl
itto.

Nella ripresa operativa dell’immediato dopoguerra (un dopoguerra che in un’Italia di macerie e di biciclette è durissimo, sbrindellato, infittito di borsari neri e di vedove di guerra), il dibattito artisticoculturale riprende tuttavia con robusto slancio, come testimoniano l’articolo che all’indomani della fine del confl
itto introduce la ripresa delle pubblicazioni della storica rivista «Aurea Parma», ponendo in epigrafe il famoso verso oraziano Multa renascentur quae iam cecidere (94), e la nascita di una nuova associazione, nel novembre del 1945, che darà vita al Comitato parmense per le arti e le lettere sotto la denominazione di «Per l’Arte», finalizzato «alla tutela e all’incremento delle tradizioni del patrimonio artistico-letterario e in particolare di quello parmense» (95).


NOTE

1. Movimento Italiano per l’Architettura Razionale, nato dalla “I Esposizione” promossa nell’aprile 1928 da Adalberto Libera e Gaetano Minnucci con il patrocinio del Sindacato nazionale fascista architetti, che per la prima volta aveva raggruppato a livello nazionale gli architetti razionalisti.

2. G. GENTILE, Fascismo e cultura, Milano, F.lli Treves, 1928, pp.
173 e sgg.

3. Pubblicato in opuscolo, il discorso ebbe ampia e immediata diffusione. Cfr. Opera Omnia di Benito Mussolini, a cura di E. e D. Susmel, Firenze, La fenice, [1957], vol. XXII, pp. 360-390.

4. Opera Omnia di Benito Mussolini… cit., vol. XXIII, pp. 256-258.

5. G. GIOVANNONI, Vecchie città ed edilizia nuova, Torino, Utet, 1931, p. 460.

6. Cfr. G. GIOVANNONI, Vecchie città ed edilizia nuova… cit. e ID., Il «diradamento» edilizio dei vecchi centri. Il quartiere della Rinascenza in Roma, «Nuova Antologia», XLVIII, 1° giugno 1913, fasc. 995, pp. 449-472 e 1° luglio 1913, fasc. 997, pp. 53-76.

7. G. GIOVANNONI, Vecchie città ed edilizia nuova… cit.

8. G. CIUCCI, Gli architetti e il fascismo. Architettura e città, 1922-1944, Torino, Einaudi, c1989, p. XVIII.

9. La storiografia ne ricorda di norma una dozzina, ma lo scrittore Antonio Pennacchi (Fascio e martello. Viaggio per le città del duce, Roma [ecc.], GLF editori Laterza, [2008]) ha sinora catalogato non meno di 147 nuovi insediamenti urbani, sorti in tutte le regioni d’Italia (ad eccezione di Piemonte, Liguria, Lombardia e Umbria), per non dire delle colonie, a partire dalla bonifica delle Paludi Pontine avviata nel 1928 per proseguire con un gran numero di altre aree depresse, dalle piane del Sarno e di Sibari, alle valli del Crati e del Volturno, alla Capitanata pugliese, ecc., ma anche il Ferrarese, la Maremma, la zona del fiume Reno, la Sardegna, fino a giungere alla legge del gennaio 1940 sulla “colonizzazione del latifondo siciliano”, definitivo “assalto” del programma di bonifica integrale. Non tutte vere e proprie città (alcune oggi sono grandi e affollate, altre desolate e spettrali), più spesso borghi, ma tutte egualmente connotate da una specifica pianta (la piazza, la casa del Fascio, la chiesa, la scuola, la posta, gli edifici abitativi all’intorno) e dal progetto di diventare
città, spesso firmato da architetti di gran nome e sotteso a un più generale
progetto politico, sociale ed economico, una sorta di epopea edificatrice connessa all’ideologia ruralista del fascismo.

10. Citazione ripresa da: P. NICOLOSO, Mussolini architetto. Propaganda
e paesaggio urbano nell’Italia fascista, Torino, Einaudi, [2008].

11. V. BARCELLONA, Ultimi lavori per il risanamento dell’Oltretorrente (bilancio tecnico, igienico ed economico delle opere), «Crisopoli. Parma. Rivista bimestrale del Comune di Parma», a. 3, n. 4 (luglio-agosto 1935), p. 307.

12. F. MORINI, Risanamento dell’Oltretorrente: integrazioni e nuove emarginazioni urbane, «Malacoda. Bimestrale di varia umanità», a. IV, novembre-dicembre 1988, p. 79. Significativa, in proposito, la fosca descrizione che della zona posta all’estremità di Capo di Ponte forniva Vincenzo Paltrinieri: «[…] nell’Oltretorrente, vi era una zona di tristi casupole, mal costrutte, luride, cadenti: angiporti, tane di lupo, nidi di sudiciume e di rifiuti umani. I miserabili che le abitavano vivevano assiepati in una disgustosa promiscuità, come mandrie di bestiame, accomunate nel fango e nella putredine. Bieca sovrana, la miseria; livida ministra, la tubercolosi» (V. PALTRINIERI, Toponomastica parmense ed altri studi sul dialetto delle province parmensi, «Crisopoli» [i.e. Parma], [s.n.], 1934 (Parma : La tipografica parmense), p. 96).

13. V. BARCELLONA, Ultimi lavori per il risanamento dell’Oltretorrente… cit., p. 310.

14. Ivi, p. 311.

15. Ibidem.

16. G. UCCELLI, Il Comune di Parma per gli sfrattati, «La Casa. Rivista edilizia e urbanistica», n. 1, gennaio 1931.

17. Si vedano: E.A. GRIFFINI, Costruzione razionale della casa. I nuovi materiali: orientamenti attuali nella costruzione, la distribuzione, la organizzazione della casa, Milano, Hoepli, 1932; G. SAMONÀ, La casa popolare, Napoli, EPSA, 1935 (ristampato come ID., La casa popolare degli anni ’30, a cura di M. Manieri Elia, Venezia, Marsilio, 1973); I. DIOTALLEVI, F. MARESCOTTI, Ordine e destino della casa popolare: risultati e anticipi, Milano, Editoriale Domus, 1941.

18. In via Stanislao Solari, in viale Vittoria (“Casa del tranviere”) e in viale delle Rimembranze.

19. In via Stanislao Solari, in viale delle Rimembranze e in via Domenico Maria Villa.

20. La Casa della Nuzialità, «Parma. Rivista bimestrale del Comune », a. 1, n. 1, gennaio-febbraio 1933, p. 195.

21. Ancora nel 1935 il «problema demografico parmense» risultava al centro delle preoccupazioni del prefetto, del presidente della Provincia, del segretario federale e del Comune, che prontamente deliberava di stanziare «numerosi premi in denaro in favore della campagna demografica» (cfr. Per l’incremento demografico, «Crisopoli. Parma. Rivista bimestrale del Comune di Parma», a. 3, n. 3, maggio-giugno 1935, p. 245).

22. Ibidem.

23. Significativo in proposito un articolo comparso su «Aurea Parma» nella rubrica Vita Parmense nel 1933 (a. XVII, fascc. III-IV, maggio-agosto, pp. 142-143), di cui riportiamo un interessante stralcio: «Non siamo veramente fanatici della modernissima architettura razionale (…e vi può essere un’architettura irrazionale o anti-funzionale?…), ma vorremmo pur vedere anche di essa qualche saggio meno meschinello e timido di quello che in Viale Solferino è dato dal palazzo degli impiegati della Provincia […]. Dopo la pasta asciutta zo d’cotura, dopo i ferri liberty alle finestre e alle scale del settecentesco Palazzino di riserva, dobbiamo proprio rassegnarci ad una nuova Parma tutta faccia a vista, in istile neoromanico a decorazioni geometriche monocrome, secondo un concetto che ebbe qualche pregio, ma che è divenuto ormai un cliché abusato, e che vale tanto per le casette economiche come per i grandi edifici, stile un po’ croccante, un po’ barchessa, un po’ stazione tram a vapore?».

24. Presentato per la prima volta alla Mostra Edilizia di Roma nel 1932 fra le specialità, il mattone in litoceramica o “italklinker” godrà di una larga e immediata fortuna nell’industria edilizia italiana per la sua vantaggiosa economicità, e infl uenzerà un’intera generazione di progettisti fino agli anni Sessanta. Sull’argomento si veda M. MANGOSIO, La nascita e l’evoluzione dell’industria italiana della litoceramica e i suoi rifl essi nella cultura del costruire, in Storia dell’ingegneria. Atti del I convegno nazionale, Napoli, 8-9 marzo 2006, a cura di A. Buccaro, G. Fabricatore, L.M. Papa, Napoli, Cuzzolin, c2006, tomo II, pp. 597-600.

25. Su progetto dell’ingegnere capo del Comune, Giovanni Uccelli, cui è associato per la parte architettonica, su esplicita richiesta del presidente dell’Opera Nazionale Balilla, Renato Ricci, l’architetto Leone Carmignani.

26. Cit. in Le case e il foro. L’architettura dell’ONB, a cura di S. Santuccio,
Firenze, Alinea, [2005], p. 165.

27. G. BASTONI, La Centrale del latte di Parma, «Crisopoli. Parma. Rivista bimestrale del Comune di Parma», a. 2, n. 4, luglio-agosto 1934, p. 351.

28. Ivi, p. 352.

29. Cfr. G. MARUSSIG, Relazione sulle sistemazioni di zone urbane e suburbane della città e del Comune di Parma studiate dalla Commissione straordinaria di Urbanistica, «Crisopoli. Parma. Rivista bimestrale del Comune di Parma», a. 2, n. 6 (novembre-dicembre 1934), pp. 527-550.

30. Ibidem, p. 530.

31. B. MUSSOLINI, Sintesi del Regime (discorso pronunciato a Roma il 18 marzo 1934), in Opera omnia… cit., vol. XXVI, p. 191.

32. Cfr. G. GONIZZI, Le trasformazioni urbane, in Nel nuovo mondo. Parma da Verdi a Vittorio Veneto (1900-1918), [mostra promossa dall’] Istituzione Biblioteche del Comune di Parma; catalogo a cura di R. Montali, Parma, MUP, [2007], p. 75.

33. L’uso di indicare l’anno dell’era fascista accanto all’anno dell’era cristiana, introdotto fin dal 1923 da Mussolini, era stato adottato ufficialmente nel 1927 (Cfr. E. GENTILE, Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Roma-Bari, GLF editori Laterza, 2005, pp. 89-92), ma ci fu anche chi, come Starace, nel suo perseguire un percorso propagandistico per il regime, propose di non considerare la fine dell’anno allo scadere del 31 dicembre, ma del 28 ottobre, per rievocare l’avvento al potere delle camicie nere (Cfr. A. SPINOSA, L’uomo che inventò lo stile fascista, Milano, Mondadori, 2002, p. 124).

34. Già vincitore nel 1932 del concorso indetto a Ragusa per la progettazione di un secondo ponte sulla vallata Santa Domenica, detto Ponte Nuovo o anche Ponte del Littorio, la cui struttura, composta da un ordine di quattro archi a sesto ribassato e realizzata in cemento armato ricoperto di pietra viva, presenta patenti affinità con quello realizzato a Parma.

35. Il progetto era risultato vincitore fra i ventidue presentati alla Commissione tecnico-artistica presieduta dall’ingegnere Gustavo Colonnetti del Politecnico di Torino, a seguito di appalto-concorso su capitolato redatto dall’Ufficio tecnico comunale. L’ingegnere Aurelio Aureli e l’architetto Vincenzo Fasolo collaboreranno nuovamente nel 1936 in occasione del progetto del ponte Duca D’Aosta sul Tevere, deciso nel 1935 per collegare le nuove strutture sportive e scolastiche del Foro Mussolini al centro storico della città e inaugurato il 26 marzo del 1939, dopo tre anni di lavori. Vincenzo Fasolo (Spalato, 1885 – Roma, 1969) fu uno dei più insigni storici dell’architettura del suo tempo: promotore insieme a Gustavo Giovannoni, Arnaldo Foschini, Manfredo Manfredi e Marcello Piacentini della “Scuola di Architettura di Roma”, divenuta in seguito la prima facoltà di architettura in Italia, e della quale fu professore di Storia e stili dell’architettura dal 1925, fu autore in qualità di architetto di una serie di edifici pubblici e privati di notevole importanza in tutta Italia, ma principalmente a Roma, collaborando anche con il Gruppo “La Burbera” di Gustavo Giovannoni al progetto di risistemazione del centro della città rinascimentale (1929).

36. Il nuovo Ponte Dux, «Parma. Rivista bimestrale del Comune», a. 1, n. 5, settembre-ottobre 1933, p. 241.

37. Ibidem.

38. B. MUSSOLINI, Sintesi del Regime (discorso pronunciato a Roma il 18 marzo 1934), in Opera omnia… cit., vol. XXVI, p. 187.

39. A. PICA, Nuova architettura italiana, Milano, Hoepli, 1936, Prefazione i M. Piacentini, pp. 6-7.

40. IL GRISO, La Mostra Sindacale d’Arte, «Parma. Rivista bimestrale del Comune», a. 1, n. 1, gennaio-febbraio 1933, p. 20.

41. La prima Mostra Sindacale d’Arte, «Aurea Parma», a. XVII, fasc. I, gennaio-febbraio 1933, p. 40.

42. IL GRISO, La Mostra Sindacale d’Arte… cit., p. 20.

43. Nel dipinto la bella figlia del re di Fenicia, trascinata dal toro inferocito «sta per precipitare nell’abisso dal quale salgono rossi bagliori di fiamme; ma un uomo dai muscoli d’acciaio (il Duce), raffigurato nell’atteggiamento d’una immortale statua greca, si slancia alla testa del toro, lo afferra per le corna, lo ferma in tempo e lo lega ad un solido “Perno” (il Fascismo) infisso nel suolo, e salva l’Europa », tratto da IL GRISO, La Mostra Sindacale d’Arte… cit., p. 22.

44. Per la controversa interpretazione del grande dipinto, raffigurante uno scontro tra fascisti e “rossi”, si rimanda ad A.C. Quintavalle, Goliardo Padova “milanese”, in A. C. QUINTAVALLE, G. BIANCHINO, Goliardo Padova, Milano, Skira, [2006] (Catalogo della mostra tenuta a Parma e Milano nel 2006), pp. 20-21.

45. Non a caso i soli, fra i contemporanei parmigiani, a essere acquistati negli anni in esame dal nobiluomo piacentino Giuseppe Ricci Oddi per la sua prestigiosa collezione. Cfr. F. ARISI, Galleria d’arte moderna Ricci-Oddi Piacenza, Piacenza, Edizioni Tip.Le.Co., 1988, pp. 190 e 375.

46. Cfr. Per il IV centenario della morte del Correggio, «Aurea Parma», a. XVII, fasc. V e VI, settembre-dicembre 1933, p. 206.

47. La direzione artistica della mostra viene ufficialmente affidata a Carlo Calzecchi, soprintendente all’arte medievale e moderna per l’Emilia-Romagna, «persona di alto valore e di energia decisa e pratica». Loaffiancano: Paolo Baratta, presidente dell’Accademia di Belle Arti; Armando Ottaviano Quintavalle, direttore della Galleria (in seguito coadiuvato nella scelta e nell’ordinamento delle opere dai giovanissimi Giulio Carlo Argan e Cesare Brandi); Giovanni Copertini, segretario del Collegio accademico; Giovanni Masi, direttore della Biblioteca Palatina (con l’incarico di allestire nei locali della Biblioteca un’importante mostra bibliografica e iconografica del Correggio); i professori Fortunato Rizzi e Matteo Cerini (con il compito di organizzare un convegno internazionale di studiosi d’arte); l’avvocato Ettore Vedani con funzioni amministrative; Francesco Borri e Francesco Lasagna «incaricati della parte pubblicitaria e delle agevolazioni turistiche », estratti da P.G. CONTI, La Mostra Nazionale del Correggio, «Aurea Parma», a. XVIII, fasc. I, 1934, p. 92.

48. Ivi, p. 91.

49. Emblematica a questo proposito la vicenda dell’Antiope, per la quale il Comitato «ha provato le ansie, le speranze, gli sconforti e da ultimo le gioie, che ognuno di noi può sentire per un essere amato che, atteso per lungo tempo invano, finalmente giunge e con il suo riso rasserena il cielo» (G. COPERTINI, La Mostra Nazionale del Correggio a Parma, «Aurea Parma», a. XIX, fasc. VI, 1935, p. 243): in un primo tempo promessa e accordata dal Louvre, poi trattenuta a Parigi per due mesi in occasione della Mostra d’Arte italiana, e infine giunta a Parma solo alla fine di luglio.

50. Dal critico d’arte italo-americano Giovanni Del Drago, che invia al duce un memoriale in favore dell’iniziativa parmense; da Giorgio Nicodemi, soprintendente ai Musei civici di Milano, e da Nino Barbantini (organizzatore nel 1933 a Ferrara, a Palazzo dei Diamanti, di uno dei più importanti eventi espositivi del tempo, dedicato alla pittura ferrarese del Rinascimento), che forniscono al collegio accademico parmense indicazioni tecniche per la stesura del primo progetto inviato al Ministero dell’Educazione Nazionale; ma anche da Achille Starace, segretario del PNF, e dal ministro Francesco Ercole, i cui buoni uffici facilitano in Roma il compito del segretario della federazione parmense.

51. Il contributo della R. Accademia d’Italia, quello del PNF (5.000 lire rimesse al segretario federale Valdrè da Starace per conto del Direttorio nazionale il 9 novembre 1934. Cfr. «Crisopoli. Parma. Rivista bimestrale del Comune di Parma», a. 2, n. 6, novembredicembre 1934, p. 562) e quello personale del duce (10.000 lire; cfr. ivi, p. 565).

52. Fra le quali si segnalano Ritorna il Correggio di Latino Barilli, artista ancora una volta in linea con i sentimenti e le aspettative collettive «di un’arte grande, luminosa, fatta di impeto, di movimento, di perizia», ma anche gli acquerelli di Aldo Raimondi e la serie di quadri ispirati alla vita di padre Lino di Amelia Mecherini, che conseguono a pari merito il premio di pittura, nonché le sculture di
Carlo Corvi e di Armando Giuffredi, che ottengono rispettivamente il primo premio e la menzione onorevole in questo genere (Cfr. A. P., Il XV Concorso del Premio Artistico perpetuo, «Aurea Parma», a. XVIII, fasc. I, 1934, pp. 43-44).

53. Svoltasi su iniziativa del podestà Mantovani le sere del 3 e 4 maggio 1934 nella chiesa abbaziale di San Giovanni Evangelista.

54. Celebrata dall’abate benedettino Emanuele Caronti sempre in San Giovanni, cui il Correggio era legato da vincoli di affetto e gratitudine.

55. Il discorso inaugurale delle manifestazioni artistiche parmensi è tenuto da Armando Ottaviano Quintavalle il 3 maggio 1934 in un’aula dell’università; il 22 maggio Arnaldo Barilli tiene una lettura sull’Anima del Correggio presso il Circolo del Littorio; infine, il 23 maggio Giovanni Copertini, nella sua qualità di segretario del Collegio Accademico parmense, pronunciava a nome dell’Accademia un discorso commemorativo nel teatro delle Dame Orsoline.

56. Il manifesto prescelto (vincitore sui bozzetti di Latino Barilli, Silvio Barbieri e di Bianca Baratta) è opera di Giorgio Bandieri (Carpi, 1908 – Parma, 1995). Connotato da un’oratoria asciutta, ma implicitamente inneggiante a valori semplici e solenni, che non mancò di suscitare «vivaci commenti di vario tenore nella cittadinanza » (P. G. CONTI, La Mostra Nazionale del Correggio… cit., p. 94), rappresenta sullo sfondo del Duomo la statua del Correggio scolpita da Agostino Ferrarini con uno stile severo dalla semplificazione quasi monacale, ispirato all’abbandono di ogni decorativismo e connotato da un lettering enfatizzato e ingigantito, in linea con le tendenze grafiche più aggiornate, che privilegiano un carattere tipografico semplificato e ingrossato nello spessore dei tratti.

57. Lydia di Arenberg, moglie di Filiberto di Savoia Genova, duca di Pistoia dal 1904. Sostenitore di Mussolini, Filiberto partirà volontario durante la guerra d’Etiopia dove avrà il comando di una milizia volontaria per la sicurezza nazionale chiamata “Divisione 23 marzo”, che per prima isserà la bandiera italiana ad Amba Aradam.

58. M. CERINI, La Mostra del Correggio fra due date gloriose, «Crisopoli. Parma. Rivista bimestrale del Comune di Parma», a. 3, n. 2, marzo-aprile 1935, p. 86.

59. A sua volta distinta nei nuclei «i Pittori precorreggeschi; il Correggio (dipinti e disegni); i Conseguenti del Correggio (dipinti e disegni)» (Cfr. G. COPERTINI, La Mostra Nazionale del Correggio… cit., p. 243).

60. Organizzata in Raccolta iconografica e Raccolta bibliografica.

61. Ai visitatori dell’esposizione correggesca era assicurata la riduzione ferroviaria del 50% (cfr. Il Patronato del sovrano alla Mostra correggesca, «Crisopoli. Parma. Rivista bimestrale del Comune di Parma», a. 3, n. 1, gennaio-febbraio 1935, p. 78).

62. Ivi, p. 252.

63. In effetti l’importante rassegna (dove pure, a detta sempre del Copertini, non erano mancati «errori cronologici, critici, estetici, svalutazioni e supervalutazioni arbitrarie, attribuzioni insostenibili ») sollecitò una significativa revisione di problemi, in ordine sia agli inizi dell’attività del Correggio sia alla riproposta della personalità artistica dei suoi diretti allievi: Francesco Maria Rondani, Michelangelo Anselmi, Girolamo Mazzola Bedoli, Parmigianino (cui Quintavalle dedicherà nel 1948 una fondamentale monografia) e Jacopo Bertoja.

64. Cronaca e bibliografia, «Aurea Parma», a. XX, fasc. II, 1936, p. 72.

65. Ivi, pp. 73-74.

66. E. GENTILE, Fascismo di pietra, Roma-Bari, GLF editori Laterza, 2007, p. 121.

67. Ivi, p. 122.

68. B. MUSSOLINI, La proclamazione dell’Impero, «Il Popolo d’Italia », 10 maggio 1936; ora in Opera omnia… cit., vol. XXVII, pp. 268-269.

69. Il monumento a Fabio Bocchialini, «Aurea Parma», a. XVII, fascc. V e VI, settembre-dicembre 1936, p. 185.

70. L’8 ottobre 1941 Mussolini si recherà personalmente a Parma per consegnare la “Spiga d’oro” agli agricoltori parmensi e cogliere gli umori della città in un momento difficile per la situazione economica della guerra in corso. Nell’occasione impartirà disposizioni al prefetto perché il monumento alla Vittoria, già destinato alla rimozione per la fusione del bronzo, resti al suo posto, visiterà la chiesa del Quartiere destinata a diventare “Sacrario dei Caduti fascisti della terra parmense” e darà il consenso allo spostamento del monumento a Corridoni dalla piazza omonima a piazza del Quartiere (oggi Picelli), «nel vero cuore dell’Oltretorrente». Sulla «trionfale giornata del Duce fra il popolo parmense» si veda: Il Duce a Parma: 8 ottobre 1941, Parma, PPS editrice, 1993. [Riproduzione de: La Fiamma. Foglio d’ordini della Federazione dei fasci di combattimento di Parma, n. 9 (15 ottobre), a. 1 (1941)].

71. Cfr. Lettera di Renato Brozzi a Gabriele D’Annunzio, da Roma, 28 gennaio 1928, in Carteggio Brozzi-D’Annunzio 1920-1938, a cura di A. Mavilla, Traversetolo, Amministrazione Comunale, 1994, pp. 56-58. Nell’occasione l’artista aveva definito con malcelata insofferenza la lunga lista di indicazioni iconografiche suggerite dai committenti una «insalata di concetti, che ho dovuto attenermi e che non mi ha troppo giovato alla mia fantasia».

72. Durezza e fatica che l’artista aveva sperimentato in prima persona, cominciando a lavorare nei campi a sette anni, come lui stesso rievocava nei suoi Ricordi autobiografici, per la prima volta pubblicati da Copertini nel 1937: «Ero bambino ancora quando il babbo reclamava il mio piccolo tributo per la vita. Ricordo i pianti della mamma nel vederci in così tenera età ai primi ostacoli per l’esistenza […] ma il bisogno esigeva un immediato guadagno. Il lavoro dei campi era il terribile incubo» (Ricordi autobiografici di Cornelio Ghiretti, «Aurea Parma», a. XXI, fascc. IV-V, 1937, p. 167).

73. Si vedano in particolare i piatti La colazione nei campi; Pane, onore della casa, gioia del focolare; Il seminatore; Il seminatore e l’angelo, noti attraverso le illustrazioni che corredano i Ricordi autobiografici amorevolmente raccolti e coordinati dalla sorella Maria nel 1940, a sei anni dalla prematura e repentina scomparsa dell’artista, e recentemente rielaborati e riediti nel 74° della morte. Cfr. Ricordi autobiografici di Cornelio Ghiretti, prefazione di R. Brozzi, Parma, Fresching, 1940, s.p.; Cornelio Ghiretti, Basilicagoiano, [s.n.], 2008 (include la ripr. anastatica del volume Ricordi autobiografici di Cornelio Ghiretti, 1940), s.p. Ghiretti aveva peraltro già pagato il suo tributo all’ufficialità nel 1928, con un Ritratto di Mussolini presentato alla Mostra d’arte della Società d’Incoraggiamento. Cfr. G. COPERTINI, Arte di artisti nostri, «Aurea Parma», a. XII, fasc. VI, novembre-dicembre 1928, p. 187.

74. Cfr. M. DALL’ACQUA, La solitaria ricerca. Materiali per una biografia di Luigi Froni, in Luigi Froni, scultore, 1901-1965. Ritratti dell’esistenza, testi di M. Dall’Acqua e R. De Grada, Parma, Fondazione Cassa di Risparmio di Parma e Monte di Credito su Pegno di Busseto, [1995] (catalogo della mostra tenuta a Parma nel 1995), p. 13.

75. Pietro Carnerini, a cura di S. Moroni, [Traversetolo, Amministrazione Comunale, 1993] (catalogo della mostra di Traversetolo nel 40° della morte), p. 47 nota 13.

76. Dibattito che aveva avuto i suoi più importanti antefatti nella fondazione della rivista «Arte Cristiana», che inizia le pubblicazioni nel 1913 sotto la direzione del cardinale Celso Costantini, e nella fondazione della Scuola superiore d’arte cristiana “Beato Angelico”, istituita nel 1921 dal sacerdote Giuseppe Polvara, pittore e architetto, per la conoscenza, la conservazione, la valorizzazione, l’aggiornamento e lo sviluppo del patrimonio artistico e artigianale a servizio della liturgia della Chiesa Cattolica.

77. Cfr. La relazione della Commissione giudicatrice per la scelta del progetto, «Corriere Emiliano», 16 marzo 1937. Per le notizie riguardanti il bando del concorso, i nomi dei commissari giudici e i progetti presentati dai concorrenti cfr. Concorso nazionale per il Tempio del S. Cuore in Parma, Parma, Fresching, 1937.

78. Giudizio peraltro condiviso anche da Giulio Arioli, che nell’ottobre dedica al concorso parmense un articolo su «Arte Cristiana», pubblicando in veduta prospettica e in pianta sei progetti concorrenti e facendo emergere di ognuno pregi e soprattutto difetti. Ugualmente annotato in senso sfavorevole è il bando di concorso, per l’indeterminatezza del tema, la contravvenzione al canone 1164, par. 2 del Codice di diritto canonico, che vieta la promiscuità dell’uso sacro col profano (sotto il tempio era previsto un cinematografo…) e per l’insufficienza della spesa preventivata.

79. «L’esito del concorso crediamo abbia sorpreso tutti e persuaso nessuno», commentava Antonino Sorrentino, che sulle pagine di «Aurea Parma» firmava una sorta di controrelazione alle decisioni della giuria ufficiale, sottolineando che il giudizio «è sembrato mancare di umanità e di misura» e rilevando sarcasticamente l’ostinato agnosticismo del Comune di Parma, che pur avendo donato l’area, «veramente assai estesa», non aveva in alcun modo partecipato alla commissione giudicatrice. Il pubblico, dal canto suo, aveva «subito scartato i silos, e gli hublots, e le stazioni ferroviarie, e i mulini a cilindri, e le serre da fiori, e i castelli medioevali, e altre aberrazioni», ma aveva avvertito «la serietà e nobiltà di parecchi progetti», peraltro manifestando di indirizzare le proprie predilezioni lontano dallo stile «cosiddetto novecento [che] mal si addice alla casa del raccoglimento e della preghiera». Ad ogni buon conto, i committenti, i reverendi padri dell’Istituto Missioni Estere, avevano finito con l’accordare la preferenza per l’esecuzione al progetto siglato «Laete», anche se «troppo tempio e poco parrocchia e alquanto moschea», uno fra i più criticati dalla cittadinanza e decisamente eliminato dalla giuria per la mancanza del battistero e di altri elementi indispensabili al culto. Cfr. A.S., Concorso nazionale per il tempio del S. Cuore in Parma, «Aurea Parma», a. XXI, fasc. IV, 1937, pp. 173-174.

80. Bibliografia e cronaca, «Aurea Parma», a. XXI, fasc. IV, 1937, p. 175.

81. Cfr. L’esito del Concorso pel progetto dell’erigenda Chiesa del Corpus Domini, «Corriere Emiliano», 19 maggio 1937. Per le notizie riguardanti il bando del concorso, i nomi dei commissari giudici e i cinque progetti presentati dai concorrenti cfr. Concorso provinciale per il Tempio del Corpus Domini in Parma, Parma, Fresching, 1937.

82. Rivista mensile illustrata di arte, lettere, scienze, destinata a durare solo un anno, che vede coinvolti Erberto Carboni, Atanasio Sodati, Latino Barilli, Bruno Giandebiaggi, Aldo Chiappelli, Mario Vellani Marchi e Carlo Corvi, vincitore del concorso indetto per la nuova copertina.

83. Uscito come numero unico negli anni 1931, 1933, 1934, 1935, 1938, vi collaborano Giovannino Guareschi, Remo Gaibazzi, Carlo Mattioli e nuovamente Latino Barilli, peraltro coinvolto anche nell’allestimento dell’apparato iconografico delle opere di Renzo Pezzani, insieme con altri raffinati illustratori, dal già ricordato Carboni al giovane Piero Furlotti, ai più noti Bruno Angoletta a Chiaretta Buratti.

84. «Riccio da Parma», «La Doccia», «La Puntura», «Al D’Sevod», «Il Satiro».

85. Il triestino Marussig è in questi anni personaggio di spicco della cultura cittadina, particolarmente legato alla storia del R. Istituto d’Arte Toschi, istituito a partire dal 1° novembre 1924, dove rimarrà quindici anni (1925-1939) tenendo la cattedra superiore di Decorazione murale e pittorica e in seguito anche la direzione. In questo ruolo «ha costituito un Museo della Reale Parmense Accademia di Belle Arti, riunendo in un seguito di sale interessanti opere d’arte specialmente del 1700 e del 1800, fra le quali una notevole collezione Toschi comprendente i torchi e le macchine provenienti dallo studio del celebre incisore, una collezione Bartolini, e un gabinetto delle stampe; ha dotato, con lavoro personale, di un catalogo per materie la Biblioteca dell’Istituto; ha istituito al pianterreno la mostra permanente degli elaborati scolastici; ha fatto partecipare con successo l’Istituto a varie mostre, come all’ultima Triennale di Milano [la V, del 1933], dove si meritò il Gran Premio» (A. P., Guido Marussig è stato trasferito dall’Istituto d’Arte di Parma alla
Cattedra di Ornato presso il R. Liceo artistico della R. Accademia di Belle Arti di Brera, «Aurea Parma», a. XXIII, fasc. VI, 1939, pp. 219-220. Sulla presenza di Marussig all’Istituto d’Arte e sul fascino da lui esercitato sugli allievi si veda anche P. FURLOTTI, Marussig all’Istituto d’Arte, «Gazzetta di Parma», 22 febbraio 1966).

86. Ripr. in T. MARCHESELLI, Anni difficili. “Arte parmense tra due ideologie”, [mostra tenutasi presso la] Galleria Mazzocchi, Parma, Borgo Scacchini 3, dal 13 novembre al 15 dicembre 1999, Parma, Comune di Parma – Assessorato alla Cultura, [1999], s.p.

87. Il Premio Cremona. Catalogo delle opere esposte alla mostra, [S.l., s.n.], stampa 1939 (Cremona, Cremona Nuova), p. 5.

88. Per il 1939 i temi sono due: Ascoltazione alla radio di un discorso del Duce (premio A) e Stati d’animo creati dal fascismo (premio B). Per le due successive edizioni è Mussolini stesso, che visita la rassegna il 19 giugno, a fissare i temi: La battaglia del grano (1940) e La Gioventù italiana del Littorio (1941).

89. La mostra per l’Incoraggiamento del 1939 e la VII Interprovinciale, tenutasi per la prima volta a Parma in quello stesso anno.

90. Sul chiarismo milanese si vedano le pubblicazioni esemplari di Rossana Bossaglia (I chiaristi, Milano, Bocca, c1999, catalogo della Mostra tenuta a Milano nel 1999) e di Elena Pontiggia (Il chiarismo, Milano, Abscondita, [2006]), tornata ancora di recente sul tema (Il Chiarismo. Omaggio a De Rocchi: luce e colore a Milano negli anni Trenta, Milano, Skira, 2010, catalogo della Mostra tenuta a Milano nel 2010).

91. Cronaca e bibliografia, «Aurea Parma», a. XXIV, fascc. III, IV, V, 1940, p. 180.

92. A. O. QUINTAVALLE, Mostre personali all’Unione Parmense dei Professionisti ed Artisti, «Aurea Parma», a. XXVII, fasc. annuo, 1944, p. 36.

93. I dati, tuttora controversi, sono tratti da: M. PELLEGRI, Parma 1943-1945: le ferite della guerra e la rinascita della città, Parma, MUP, c2006.

94. G. DREI, Ripresa, «Aurea Parma», a. XXIX, fasc. annuo, 1945, pp. 3-4.

95. Comitato parmense “Per l’Arte” per le arti e le lettere, Statuto, Parma, Fresching, 1946, art. 1.

 

 

 
 
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